
Quando la volatilità prende il sopravvento può capitare di assistere ad oscillazioni paurose in pochissimo tempo sugli indici azionari. Come quelle degli ultimi 3 giorni sull’indice SP500: sedute con +4% lunedì, -3% martedì, e nuovamente +4% ieri. Oscillazioni da cardiopalma, che mettono tutti gli investitori su un ottovolante, anche quelli che dai saliscendi sono terrorizzati.
Chi ha un po’ di memoria queste cose le ha già vissute nell’estate del 2011 e soprattutto nel 2008, con una magnitudo sismica ancora più imponente. Ricordo nel novembre 2008 due sedute da -6% seguite da due sedute da +6%. E quella scossa, che qualcuno scambiò erroneamente per una inversione a V, non segnò la fine del ribasso, che si concluse 100 punti sotto il vertice della finta V solo a marzo del 2009.
Il problema, non di poco conto, è che molti dei gestori di fondi che in questi giorni calcano le scene dei mercati non hanno la memoria storica del passato. Alcuni perché allora erano all’università a studiare le teorie gestionali che si stavano schiantando e che oggi stanno di nuovo applicando, senza mettere in conto che il 2008 si possa ripetere. Altri, che magari c’erano, hanno perso il ricordo, lavato dall’abbondante liquidità fornita da un decennio di accondiscendenza delle banche centrali, ed oggi pensano che “questa volta è diverso”.
Se l’esito finale sarà diverso lo vedremo. Intanto prendiamo atto che la volatilità sta facendo il suo sporco lavoro esattamente come allora. A chi si sta chiedendo quale sia lo sporco lavoro della volatilità, possiamo rispondere citando Keynes: “Separare gli sprovveduti dal loro denaro”.
Un altro aspetto tipico dei momenti di alta volatilità, in cui le bizze dei mercati sono violente, è che
il compito dei commentatori diventa difficile. Trovare il motivo dell’ultimo movimento a volte appare facile, ma poi si scopre il giorno seguente che forse il mercato non aveva le idee così chiare, poiché sembra confutare lo schema interpretativo usato per motivare il movimento del giorno precedente. Altre volte si presenta fin da subito molto difficile, anche perché, quando il mercato cambia continuamente direzione, magari lo fa senza apparenti motivazioni.
Ieri il violento rimbalzo che si è sviluppato a Wall Street, dopo una mezz’oretta di oscillazione iniziale, ha annullato completamente sull’indice SP500 lo svarione accusato il giorno prima, subito dopo l’annuncio maldestro del taglio dei tassi FED.
Perché sia successo non mi è molto chiaro, a meno di volerlo motivare con una rivalutazione della performance comunicativa della FED o con l’illusione che l’efficacia dei provvedimenti presi sia ancora quella di una volta, quando la crisi era nella domanda, mentre ora è nell’offerta.
Forse una qualche ventata di ottimismo sembra averla fornita il Fondo Monetario internazionale, che ha varato un finanziamento anti-virus da 50 miliardi di dollari a disposizione degli stati che ne abbiano bisogno. Forse gli ottimisti si sono aggrappati alla resurrezione di “sleeping Joe”, come Donald Trump chiama il suo acerrimo nemico Joe Biden. Questi, che nelle prime tornate delle primarie Dem sembrava effettivamente piuttosto addormentato, ha beneficiato nel super Tuesday del ritiro di alcuni candidati del fronte moderato ed ha vinto in parecchi stati, passando in vantaggio rispetto al suo rivale socialista Bernie Sanders. Ieri poi, il magnate Bloomberg ha terminato la sua veloce apparizione come stella cadente e, dopo aver sperperato in inutili spot mezzo miliardo di dollari, si è già ritirato ed ha promesso il suo appoggio a Biden, che a questo punto diventa il grande favorito del fronte Dem.
Perché le borse dovrebbero festeggiare la probabile candidatura di Biden a sfidare Trump? Per il fatto che se Donald è il pusher ufficiale della speculazione rialzista, Biden, se anche dovesse vincere, sarebbe un controllore che non controlla nulla e la banda delle banche d’affari potrebbe continuare indisturbata a speculare. Io, da quel che ho visto, penso che il problema non si dovrebbe porre, poiché verrà fatto a pezzi da Donald, a meno che il virus e la recessione gli diano una mano insperata. Sembra proprio che la vocazione al suicidio politico non sia un’esclusiva dei democratici italiani.
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