
La scorsa settimana è stata abbastanza significativa, poiché, sebbene non si sia assistito a movimenti eclatanti sui mercati, abbiamo avuto qualche importante chiarimento sull’evoluzione della congiuntura mondiale, in relazione ad alcuni argomenti piuttosto significativi.
Li analizzerei cercando di focalizzarmi sulla loro concatenazione.
Il primo anello della catena direi che è il prezzo del Petrolio. Sul greggio il messaggio pervenuto, molto chiaro, è che sono assai più importanti gli aumenti di produzione USA che i tagli dei paesi OPEC. Infatti l’aumento di scorte di petrolio e derivati in USA ha fatto scendere fino a 45 dollari il prezzo del Crude Oil. Rispetto ai 55 dollari di febbraio siamo quasi il 20% sotto. Prezzi così nessuno se li aspettava dopo l’apparente buona notizia di fine maggio sul prolungamento dell’accordo OPEC per tagliare la produzione e sostenere le quotazioni dell’oro nero. Il merito è dell’entusiasmo dei produttori americani di shale oil, che continuano ad aprire nuovi pozzi, galvanizzati dalla paterna influenza del loro beniamino Donald Trump, che per loro (ma anche per i produttori di carbone) ha addirittura isolato politicamente il suo paese, rigettando gli impegni di Parigi contro l’inquinamento ed il mutamento climatico e mettendosi contro il resto del mondo.
Siccome il calo dei prezzi petroliferi va avanti ormai da oltre 3 mesi, anche la spinta inflazionistica dell’andamento globale dei prezzi sta scemando, soprattutto in Europa, ma anche in USA. Quelli, tra cui il sottoscritto, che temevano una ripresa dell’inflazione a causa delle spese folli e dei regali fiscali di Trump, che avrebbero costretto le banche centrali ad agire sui tassi, per ora debbono attendere. Trump non ha ancora combinato nulla. Anzi, sembra incartato a difendersi dalle indagini sul russia-gate, che martedì vedranno un altro suo collaboratore, il Ministro della Giustizia Sessions, sulla graticola a testimoniare al Senato sui suoi rapporti con i russi, mentre anche il genero Kushner figura nella lista dei prossimi interrogati dalla commissione del Senato sui traffici pre-elettorali con i russi. L’economia è lontana dalla mente di Donald e pertanto l’inflazione risente più del rallentamento della crescita che si è visto nel primo trimestre e che anche nel secondo non sembra brillare, e del calo del petrolio, che delle aspettative di miracoli economici sempre più lontani e difficili.
Stiamo perciò assistendo ad un afflosciamento dei prezzi in maggio, che è comparso la scorsa settimana sui dati preliminari e verrà confermato questa settimana dai dati definitivi.
In questa situazione Draghi ha avuto buon gioco a zittire le voci smaniose di tornare alla normalità monetarie ed ha spavaldamente promesso ancora un lungo periodo di allentamento monetario, almeno fino a fine anno, e poi si vedrà, dato che con un’inflazione in Eurozona al 1,4%, l’obiettivo della BCE (Toronto: BCE-PRA.TO - notizie) del 2% si sta allontanando invece che avvicinarsi. In USA l’inflazione è un po’ più alta che in Europa (si dovrebbe fissare al 2% in maggio), ma è in contrazione anche lì, poiché la precedente rilevazione la fotografava al 2,2%. Qui siamo comunque al target della FED, per cui trova buone ragioni la normalizzazione in corso da parte di Yellen e soci. Ma sono diminuite le ragioni per dare un’altra spintarella da un quarto di punto ai tassi ufficiali nella riunione della Federal Reserve che si terrà mercoledì prossimo. Le attese degli esperti davano quasi per certo il rialzo dei tassi a 1,25% dall’attuale 1%. Da qualche giorno la percentuale dei convinti è scesa e se la FED dovesse decidere di aspettare un altro mese la sorpresa non sarebbe poi così grossa. Ma qui occorre anche valutare quanto un evento del genere, cioè lo smentire se stessa, dopo aver ripetutamente annunciato in tutti i modi l’imminenza del rialzo, verrebbe ad incidere sulla credibilità della FED e sull’impressione che i mercati potrebbero farsi circa la capacità di previsione e di valutazione della più potente banca centrale del mondo. Credo che forse, paradossalmente, dai mercati sarebbe accolto meglio un rialzo che un nulla di fatto, specie se il rialzo venisse accompagnato da una manifestazione di fiducia nella crescita USA manifestato attraverso proiezioni economiche ancora favorevoli, che attribuiscano ad eventi transitori il rallentamento produttivo del primo trimestre dell’anno.
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